PSICOTERAPIA E ANORESSIA

“MENS SANA IN CORPORE SANO”.

Mente sana in corpo sano.

Sin da piccoli ci insegnano che per favorire la sanità mentale, bisogna innanzi tutto coltivare quello fisico, in virtù dell’unità psicofisica.

A mio avviso, questa locuzione non dovrebbe fare riferimento unicamente all’attività fisica propedeutica all’equilibrio psicofisico, bensì al concetto di corpo, per esteso.

L’essere magri non è necessariamente sinonimo di salute.

L’anoressia e la bulimia ne sono un esempio, più che eclatante.

Avete presente la sensazione di costante allerta, di pressante tensione, nel corpo e nella mente, con l’obiettivo di raggiungere la perfezione? L’angosciante senso di isolamento perché da una parte ci si sente troppo forti e “superiori” per stare con gli altri, ma su di un versante opposto, la percezione di non essere compresi, di non essere ascoltati e di essere soli, è devastante.

Questo, è quello che tempo fa mi ha riportato C., una mia paziente anoressica.

Esiste un universo al di là dei sintomi, che sono catastrofici. Non si tratta infatti della sola perdita dell’appetito e della fame, ma della spietata ricerca di una massima magrezza, nonostante il fisico urli a squarciagola la sua sofferenza, ed avverta del grave pericolo che si sta correndo.

La terapia è un percorso difficile, in quanto la resistenza al cambiamento è tra le più forti che si possano incontrare. Resistenza alla maschera di perfezione creata sin dall’infanzia. E’ fondamentale quindi creare sin dall’inizio un legame di fiducia.

Il lavoro con C.

Con C. è stato difficile instaurare una buona alleanza terapeutica ed una comunicazione onesta, in quanto i nostri primi colloqui erano caratterizzati da suoi tentativi di manipolazione, per vanificare ogni tentativo di aumento di peso. Questo mi ha quindi insegnato l’importanza di precisare, sin dall’inizio, che la terapia si occupa del mondo interiore e non della dieta o del peso. E’ difatti importante che il paziente abbia fiducia nell’interesse genuino del terapeuta e negli apprezzamenti circa le sue qualità individuali, nella sua sincera e profonda convinzione che anche il paziente abbia una propria personalità.

Mi riferiva spesso di non riuscire a comunicare con i suoi genitori, e che loro non capivano nulla. Ogni piccola forma di comunicazione culminava in un litigio, e la rabbia urlava forte nel suo petto.

Un urlo senza voce, un pianto senza lacrime.

Abbiamo lavorato lentamente, a piccoli passi, attraverso minimi episodi ed aspetti della quotidianità, man mano che si presentavano, al fine di evidenziare la natura illusoria delle sue credenze. In tal modo, l’iniziare accondiscendenza con tutto quello che dicessi o proponessi, è stata sostituita con la messa in discussione delle sue convinzioni.

Mi chiedevo spesso “cosa pensa realmente C. quando dice di essere d’accordo con questa affermazione?”

Era un continuo distinguere il comportamento reale da quello di facciata.

Il mio duplice compito si alternava tra il manifestare il mio disaccordo con le sue opinioni e richiamare, incoraggiare il potenziale di un’immagine positiva di sé.

Mantenere il focus sui dubbi che C. aveva su sé stessa, sul suo senso di inadeguatezza nonostante gli immensi sforzi di raggiungere la perfezione. Sostenerla nella ricerca di autonomia, della propria identità, concentrandosi sulle sue difficoltà nell’esprimere il suo Io e trasmettere il messaggio che anche lei aveva una propria forza, risorse che si nascondevano dietro la finzione della perfezione.

Questo è stato il nostro lavoro, viaggio che le ha permesso di far emergere una crescente fiducia verso i propri sentimenti, pensieri ed avere un atteggiamento più armonioso verso il raggiungimento dell’età adulta.

Con C., come con gli altri pazienti che si sono presentati  a me con questo peso nel cuore, cercavo sempre, soprattutto nella fase iniziale, di utilizzare un linguaggio semplice, chiaro che non lasciasse eccessivo spazio all’interpretazione, ed all’ironia, consapevole della sua tendenza nel prendersi troppo sul serio. La possibilità, in un secondo momento, di abbandonarsi per qualche attimo, a toni più leggeri e di ilarità, mi hanno fatto capire che qualcosa stava cambiando. Ed il tono benevolo ed amichevole che mi caratterizza, ha aiutato C. a visualizzare il suo cinismo, nel dipingere il mondo e gli altri come crudeli e privi di amore sincero.

Ho così iniziato a prestare attenzione ad ogni piccola variazione che portava in seduta, alle sue iniziative e minime espressioni, al fine di sostenere l’emergere del senso di autoefficacia e di lavorare sull’autostima.

Nel nostro ultimo colloquio, C. mi ha confessato di non vergognarsi di aver sofferto di anoressia, dei suoi 38 Kg. Adesso non sentiva più rabbia verso sé stessa, ma un senso di tenerezza nei confronti di quella “bambina” che non voleva crescere, a tutti i costi. Il finto mondo si è sgretolato, ed ora riesce a sentire le emozioni genuine, autentiche e cristalline, come diceva lei.

Il cambiamento dell’immagine riflessa nello specchio le ha rivelato il passaggio dal percepirsi vittima, priva di forza e di luce, all’esperienza di sentirsi partecipante attiva delle circostanze, pronto a vivere la propria vita.

 

 

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